Dialoghi con l’ombra

La voce, ora stridula ora cavernosa, di un fool alterna stonature contraffatte, ripetendo convulsamente una dolce e inquietante nenia – che cos’è la letteratura? – La voce distorta rompe l’equilibrio disincantato che tiene insieme il ‘bello’ e il ‘buono’, perché in un luogo cavo qualcuno continua a ridere. Così, i monologhi sbilenchi del giullare si sdoppiano, si fanno dialoghi mascherati, giochi di parole, capovolgimenti, rifrazioni, metafore, errori, equivoci che tessono intorno, dentro e attraverso la letteratura. Un ticchettio e un frullio di pagine scandiscono il discorrere dissonante della voce, ma strumento non sono le parole, strumento è il fool. È costui ad esser giocato, posseduto, abitato. È costui il tramite. Le parole semplicemente accadono.

 

Il Discorso dell’ombra e dello stemma di Giorgio Manganelli, edito da Adelphi, è un congegno di stupefazioni. Un caleidoscopio urticante e ustionante. Un ‘libro’ divertentissimo, irriverente, irridente, irritante, innaturale, di gradazione alcolica elevata, vi si sfiora l’ubriachezza, a tratti anche disorientamento. Il testo non è quello di un autore che ‘scrive’ ma quello di un matto che ‘attraversa’ le pagine, aprendo capitolo dopo capitolo le stanze rotanti della ‘casa-libro’. E ancora – che cos’è la letteratura? – la voce impertinente avverte fin dal principio: la chiave è la follia. Tant’è che il testo, prima della pubblicazione, era intitolato Dello scrittore e del lettore considerati come dementi.

 

È mai esistito un mondo senza letteratura? Nei primi capitoli Manganelli scava all’origine, ricorre alla genealogia del fenomeno, ne comprime l’essenza fino a farla sparire, poiché la letteratura c’era ancora prima di esistere. L’autore fa rivivere i primordi della non-letteratura, figurandosi lettori preistorici affetti da una smania sinistra; ce li mostra mentre sfogliano fiori, anche se per loro i fiori non esistevano ancora, poiché ‘fiore’ è già letteratura. Sono lettori che annodano fili d’erba per lasciare il segno, che ascoltano il fruscio discontinuo delle foglie, che traducono idiomi di boschi differenti, e anche allora, come oggi, essi non godevano di una buona fama. Chi pratica la letteratura è affetto da demenza.

 

La parola-stemma è in relazione con il proprio doppio, la parola parla a se stessa, comunica con la sua propria parte adombrata, l’ombra è la ‘parola nascosta’ nella parola. “Continuamente, la parola ruota; essa ci offre sempre tutti i suoi didietro, le sue pudende, e le sue parole – le parole della parola – sono sussurri nel buio, spartito per fantasmi. Ma è da lei che comincia l’ombra.” Noi possiamo relazionarci con lo stemma e solo per rifrazione con l’ombra che occupa una dimensione a sé, quest’ultima agisce dentro di noi, ma non sempre si manifesta, e quando lo fa, inevitabilmente, mente.

Talvolta accade anche che alcune parole diventino, per sortilegio distratto e transitorio, più ombra di altre. Ma attenzione, occorre sempre considerare che non v’è distinzione tra parola ombra e parola stemma, Manganelli specifica: “la parola ombra e la parola stemma sono la medesima parola, non il reciproco doppio, né un sistema binario, ma assolutamente la stessa parola”.

 

La letteratura è menzogna, e per di più inutile. Essa non documenta, non spiega, non rassicura, bensì induce ed è indotta da una smania. Essa disarticola, frantuma, stordisce, smarrisce. E tuttavia è necessaria. Le parole dirompono dal riso di Dioniso, i significati sono sempre altrove, spariscono appena sfiorati. È un girare intorno, è una fuga, un divagare. Il fool dis-corre all’interno della ‘casa-libro’, egli potrebbe vestire i panni dell’arcano zero, ne contiene tutta l’attività. Il matto è l’energia dell’inizio, la spinta propulsiva, un viandante. Egli di per sé non significa nulla, è vuoto, ma è in movimento, è in azione. Può andar dritto, può girare intorno, è senza legami, senza costrizioni. Non ha concezioni temporali, egli stesso è tempo, si lascia dominare dalle energie, è anonimo e libero. E se la letteratura è fatta solo di ‘inizi’ che attendono la ‘fine del mondo’, egli è letteralmente l’inganno di quell’attesa.

 

La spia che squarcia il velo è l’errore. Attraverso lapsus, giochi di parole, allitterazioni, anacoluti, allusioni, ellissi, si precipita verso il nulla, il passo successivo è la sparizione dell’autore, ‘l’abrasione del nome’; da lì ha inizio l’eclissi totale, l’inabissamento all’interno d’un luogo cavo e oscuro, come il diaframma, la caverna degli echi. Chi sperimenta il ‘fuoco’ della letteratura sparisce, Manganelli ne affida l’essenza a due figure: Moloch e Dioniso. Essi non ne sono esattamente i custodi, ma ne incarnano i due processi. Chi è incline alle cerimonie con l’ombra può lasciarsene consumare del tutto, poiché il fuoco di Moloch, essendo eloquente, tace e annienta; oppure può scegliere il fuoco di Dioniso, lasciandosi moltiplicare dai riflessi dello specchio, incenerirsi senza ustionarsi, perdurare in un ‘divagare’ senza dire. Insomma, una volta bruciati, si darà adito all’insania che condurrà alla distruzione totale o alla rifrazione continua. Tuttavia, la pagina bianca contiene le infinite possibilità. Dunque, chi altri se non Dioniso, il dilacerato, il nato due volte, può incarnare il (non)senso della letteratura stessa, il dialogo interiore dell’attesa.

 

Questo ‘libro’ è la più alta espressione della poetica manganelliana. L’opus alchemico della retorica è esso stesso trama, ritmo e figura. La prosa travolgente è un maelstrom, la musicalità dissonante ne interrompe la battuta; il tono scordato ne blocca il fluire e costringe il lettore a fermarsi, a rileggere, a voltarsi indietro. Forse, la nota più brillante di questo stile è la incredibile autogestione del tempo (di scrittura? di lettura?) poiché anch’essa, oltre al refuso, è spia del gioco dell’istrione.

 

Nell’esaustiva postfazione di Silvano Nigro, è ripreso un frammento di un saggio di Manganelli riguardo alla maschera della retorica: “È mia convinzione che, in un modo o nell’altro, egli [Poe] era del tutto consapevole di questa duplicità del compito dell’istrione; è essenziale che fosse così, giacché l’istrionismo serviva non soltanto a ingannare – e illuminare – il lettore, ma a proteggere l’autore impegnato in un’esperienza verbale estrema; l’istrionismo funzionava come la retorica – e tutta la retorica è istrionismo – il cui compito indispensabile è di custodire colui che tenta la discesa agli inferi, il discorso con l’ombra, la schizofrenia della letteratura. I riti non servono solo ad affabulare i fedeli, se ce ne sono, né ad evocare i demoni, ma anche a tener fermo il celebrante entro il fragile e potente disegno che deve salvarlo durante il dialogo terribile – ma, dopo, non è detto né necessario che continui a salvarlo.”

 

I primi lettori del testo, all’uscita della prima edizione, dissero che il segno distintivo nel nuovo Manganelli era il dolore, poiché se è vero che scorgere l’insignificanza delle lettere provochi vertigine, è altrettanto vero che le cerimonie con l’ombra si sperimentano sulla propria pelle ustionata, esse hanno una terribilità inaudita. Colui che traffica con le parole è egli stesso parte di quella lacerazione profonda. Il tal senso, il termine ‘ombra’ è in sintonia con quella parte della psicoanalisi di derivazione junghiana, che fa riferimento a quella zona della psiche indicibile e inafferrabile, a cui lo stemma-parola può solo in-tendere, ma non dire. “La parola ‘ombra’ è il buio; ma ombra significa anche ‘anima’, e i morti hanno un’ombra che, tanta ne è la trasparenza, è invisibile. Dunque l’ombra abitante delle tenebre, è abitacolo della più rarefatta luce.”

 

 

Autore: Giorgio Manganelli

Titolo: Discorso dell’ombra e dello stemma

Editore: Adelphi

Anno: 2017

 

 

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